"Il mondo delle streghe" - читать интересную книгу автора (Norton Andre)

Capitolo terzo Simon prende servizio

Un altro lampo vivido lacerò il cielo, immediatamente sopra il pinnacolo. E fu l’inizio di una furiosa battaglia di cielo, terra, vento e tempesta, quale Simon non aveva mai visto. Si era mosso sui campi di battaglia, sotto la sferza dei terrori creati dall’uomo, ma questo era peggio, in un certo senso… forse perché sapeva che non c’era la possibilità di dominare quei lampi, quelle raffiche, quelle esplosioni.

La roccia tremava e sussultava sotto di loro che si tenevano aggrappati l’uno all’altro come bestiole impaurite, chiudendo gli occhi ad ogni scossa. Vi era un ruggito incessante, non il rombo normale del tuono, ma il rullare di un gigantesco tamburo battuto con un ritmo che cantava rabbiosamente nel sangue e faceva turbinare il cervello. La donna teneva il viso premuto contro di lui, e Simon stringeva quel corpo tremante come nell’ultima promessa di salvezza in un mondo squassato.

Continuò all’infinito: scrosci, schianti, lingue di luce, tonfi, raffiche di vento… Ma non pioveva ancora. Un tremito della roccia cominciò a riecheggiare gli schianti dei tuoni.

Un’ultima, spettacolare esplosione lasciò Simon accecato ed assordato per lunghi istanti. Ma quando i secondi divennero minuti senza che si udisse altro, quando persino il vento parve essersi esaurito in brevi soffi convulsi, rialzò la testa.

Il fetore della carne animale bruciata ammorbava l’aria. Un bagliore ondeggiante, non troppo lontano, indicava un incendio tra gli arbusti. Ma la quiete benedetta continuò, e la donna si mosse tra le sue braccia, si liberò. Ancora una volta, Simon ebbe una sensazione di sicurezza, una sicurezza frammista al trionfo, come se una partita si fosse conclusa vittoriosamente per lei.

Rimpianse che non vi fosse abbastanza luce per permettergli di vedere la scena sottostante. I cacciatori e i segugi erano sopravvissuti alla tempesta. Una luce rossa-arancio salì dalle fiamme lambenti verso la scarpata. Ai piedi del pinnacolo giaceva un groviglio di corpi bianchi, irrigiditi. Sulla strada c’era un cavallo morto: sul collo, era appoggiato il braccio di un uomo.

La donna si spinse avanti, scrutando con occhi ansiosi. Poi, prima che Simon potesse trattenerla, si calò oltre l’orlo: la seguì, temendo un attacco. Ma vide solo i corpi che giacevano nella luce dell’incendio.

Il calore della fiamma li raggiunse: era piacevole. La sua compagna tese entrambe le braccia verso quel chiarore. Simon girò intorno ai segugi morti, ustionati e sfigurati dal fulmine che li aveva uccisi. Si avvicinò al cavallo morto, pensando d’impadronirsi delle armi del cavaliere. E poi vide muoversi le dita strette nella ruvida criniera dell’animale.

Il cacciatore doveva essere ferito mortalmente, e certo Simon provava ben poca pietà per lui, dopo la caccia spietata attraverso la brughiera e l’acquitrino. Ma non poteva neppure lasciare quell’uomo così imprigionato. Lottò contro il peso del cavallo morto, e trascinò il corpo straziato dove la luce dell’incendio poteva mostrargli chi e che cosa aveva soccorso.

Il viso stravolto, macchiato di sangue, non dava segno di vita; ma il petto schiacciato si alzava e si riabbassava faticosamente, e di tanto in tanto l’uomo emetteva un gemito. Simon non avrebbe saputo dire a quale razza apparteneva. I capelli cortissimi erano molto chiari, quasi argentei: il naso era aquilino, grifagno tra gli zigomi ampi… uno strano abbinamento. E Simon pensò che doveva essere giovane, sebbene in quel volto non vi fosse nulla che facesse pensare al tipico soldatino.

Il corno ammaccato era ancora appeso alle sue spalle. E i ricchi ornamenti, la fibbia ingemmata, facevano capire che non si trattava di un semplice soldato. Simon, sapendo che non poteva far nulla per aiutarlo, rivolse l’attenzione alla cintura ed alle armi.

Prese il coltello e se lo mise al fianco. Estrasse dalla fondina la strana arma e l’esaminò attentamente. Aveva una canna, e qualcosa che doveva essere un grilletto. Ma la sentiva stranamente sbilanciata, nella mano; il calcio aveva una modellatura assurda. Se l’infilò nella camicia.

Stava per sganciare un altro oggetto, un cilindro sottile, quando una mano bianca passò fulmineamente al di sopra della sua spalla e se ne impadronì.

Il cacciatore si mosse come se quel tocco avesse raggiunto il suo cervello stordito. Gli occhi si aprirono, ferini, con uno scintillio di luce come quello che balena negli occhi d’una belva nel buio. E in quegli occhi c’era qualcosa che costrinse Simon ad arretrare.

Aveva incontrato uomini pericolosi, uomini che volevano la sua morte e che avrebbero cercato di realizzare il loro intento con spietata freddezza. Si era trovato faccia a faccia con uomini che gli ispiravano un odio fulmineo. Ma non aveva mai visto un’emozione simile a quella che scorgeva in fondo agli splendenti occhi verdi del cacciatore.

Ma Simon si accorse che quegli occhi non erano rivolti verso di lui. La donna stava lì accanto, un po’ sbilanciata perché cercava di non appoggiarsi alla caviglia dolorante, e rigirava tra le mani il cilindro che aveva strappato alla cintura del cacciatore. Simon si aspettava quasi di scorgere nella sua espressione una risposta al furore ardente e corrosivo con cui la fronteggiava il ferito. Lei stava fissando con fermezza il cacciatore, senza tradire la minima emozione. L’uomo mosse le labbra, convulsamente. Alzò la testa con uno sforzo tormentoso che lo straziò in tutto il suo essere e sputò. Poi lasciò ricadere la testa al suolo, e giacque immobile, come se quell’ultimo gesto di odio avesse prosciugato le sue ultime riserve d’energia. Nella luce dell’incendio ormai morente, il viso si decontrasse stranamente, la bocca si aprì. Simon non ebbe bisogno di notare l’interruzione del respiro faticoso per capire che era morto.

«Alizon…» La donna pronunciò quella parola scrupolosamente, guardando prima Simon, poi il cadavere. Si chinò, indicando l’emblema sulla giubba del morto. «Alizon.»

«Alizon,» ripeté Simon, rialzandosi in piedi. Non se la sentiva di prendere altro.

La donna si girò verso il varco da cui passava la strada per scendere verso la pianura del fiume.

«Estcarp…» Ancora una volta, quella pronuncia meticolosa di un nome: ma lei indicava con il dito la pianura. «Estcarp,» ripeté, ma questa volta si toccò il petto.

E come se quel nome avesse evocato una risposta, dall’altra parte del varco venne un pigolio acuto. Non era un richiamo interrogativo, come quello dei corni dei cacciatori, ma piuttosto un fischio, come potrebbe emetterlo un uomo, tra i denti, in attesa di agire. La donna rispose gridando una frase che venne portata via dal vento e riecheggiò tra le barriere rocciose.

Simon udì lo scalpiccio degli zoccoli, il tintinnio del metallo contro il metallo. Ma poiché la sua compagna stava rivolta verso il basso in atteggiamento di benvenuto, si accontentò di attendere. Ma la sua mano si strinse intorno all’automatica, dentro la tasca, e ne puntò la canna verso lo spazio tra i pinnacoli.

I cavalieri avanzarono uno alla volta. Passarono tra le guglie, ed i primi due si disposero ai lati, con le armi in pugno. Quando videro la donna le rivolsero un richiamo: evidentemente erano amici. Il quarto si avviò direttamente verso il punto in cui attendevano Simon e la sua compagna. Il suo cavallo era alto, massiccio, come se fosse stato selezionato per la sua capacità di reggere il peso. Ma il cavaliere era così piccolo di statura che Simon lo credette un ragazzetto… fino a quando balzò a terra.

Nella luce del fuoco, il suo corpo era lucente, e riflessi scintillanti brillavano sull’elmo, la cintura, la gola e il polso. Era basso, ma le spalle ampie facevano spiccare ancora di più la modesta statura, perché le braccia ed il torace sembravano più adatti ad un uomo alto almeno un terzo di più di quanto fosse lui. Portava un usbergo di maglia metallica, che gli aderiva addosso come se fosse una stoffa, e cedeva ad ogni movimento delle sue membra con estrema elasticità. L’elmo aveva un cimiero raffigurante un uccello ad ali protese. Oppure era un uccello vero, cristallizzato da un incantesimo in quell’immobilità innaturale? Gli occhi che brillavano nella testa protesa parevano fissare Simon con cupa ferocia. La liscia calotta metallica su cui stava posato terminava in una sorta di sciarpa di maglia, avvolta intorno al collo ed alla gola dell’uomo. Questi la tirò, impaziente, mentre camminava, liberando il volto. E Simon vide che non si era ingannato, dopotutto, nella sua prima impressione. Il guerriero dall’elmo ornato di un falco era giovane.

Giovane, sì, ma anche duro. La sua attenzione era divisa tra la donna e Simon; le rivolse una domanda mentre scrutava attento Tregarth. Lei rispose con un torrente di parole, tracciando segni nell’aria. Il nuovo arrivato, allora, si toccò l’elmo, in un evidente saluto allo straniero, Ma era la donna a dominare la situazione.

Indicando il guerriero, continuò la lezione linguistica: «Koris.»

Non poteva essere altro che un nome proprio, decise Simon. Si puntò il pollice sul petto:

«Tregarth. Simon Tregarth.» Attese che la donna dicesse il suo nome.

Ma lei si limitò a ripetere quanto aveva udito. «Tregarth, Simon Tregarth,» come se si imprimesse nella mente quelle sillabe. Vedendo che non reagiva in altro modo, le rivolse una domanda.

«Chi?» chiese, indicandola.

Il guerriero Koris trasalì, e si portò la mano all’arma appesa alla cintura. E la donna corrugò la fronte, e poi la sua espressione divenne così fredda e distante che Simon si rese conto di aver commesso un grave errore.

«Chiedo scusa.» Allargò le mani in un gesto che sperò di vedere interpretato come una richiesta di perdono. Aveva fatto qualcosa che non doveva, ma aveva agito per ignoranza. E la donna doveva averlo compreso, perché diede qualche spiegazione al giovane ufficiale, anche se questi non guardò Simon con troppa simpatia, durante le ore che seguirono.

Koris, mostrando una deferenza che non s’intonava con gli abiti laceri della donna ma che appariva giustificata dalla sua aria autorevole, la fece salire dietro di lui sul grande cavallo nero. Simon montò dietro una delle altre guardie, infilando le dita nella cintura del cavaliere per tenersi saldo, mentre si dirigevano verso la pianura del fiume, ad una velocità cui neppure l’oscurità della notte impediva di avvicinarsi al galoppo.

Molto tempo dopo, Simon giaceva immobile in un nido di lenzuoli e coperte e fissava, senza vederla, la curva del baldacchino di legno scolpito. Se non avesse tenuto gli occhi spalancati, sarebbe sembrato addormentato, come lo era pochi minuti prima. Ma la vecchia capacità di passare dal sonno alla veglia non era andata perduta con il suo ingresso in quel nuovo mondo. Era impegnato ad analizzare le impressioni ed a classificare ciò che aveva scoperto, cercando di sommare un fatto all’altro per ricavare un quadro concreto di ciò che stava intorno a lui, al di là di quel letto massiccio e dei muri di pietra della stanza.

Estcarp non era semplicemente la piana del fiume: era una serie di fortezze, solide roccheforti disposte lungo una strada che segnava la frontiera. Le fortezze dove avevano cambiato i cavalli, avevano mangiato per poi proseguire, spinti da una necessità di affrettarsi che Simon non aveva capito. E alla fine erano giunti ad una città dalle torri rotonde, grigioverdi come il suolo in cui erano radicate sotto il sole pallido di un nuovo giorno: torri e mura ed altri edifici di una razza alta e fiera, dagli occhi scuri e dai capelli neri come i suoi; una razza di umani dal portamento regale che sembravano portare addosso uno strano peso d’antichità.

Ma quand’erano entrati in Estcarp, Simon era così stravolto dalla stanchezza, così stordito dalle esigenze del suo corpo dolorante che ricordava solo poche immagini. E su tutte dominava la sensazione dell’antichità, di un passato così remoto che le torri e le mura avrebbero quasi potuto essere parte dell’ossatura montuosa di quel mondo. Aveva camminato per le vecchie città dell’Europa, aveva visto strade percorse un tempo dalle legioni romane. Eppure l’atmosfera aliena d’antichità che aleggiava in quel luogo era ancora più opprimente, e Simon doveva lottare contro quella sensazione per riordinare i fatti.

Era stato alloggiato al centro della città, in una struttura massiccia che aveva la solennità di un tempio e la saldezza di un fortino. Ricordava appena l’ufficiale, Koris, che lo accompagnava in quella stanza e gli indicava il letto. E poi… più nulla.

Più nulla?

Simon aggrottò la fronte. Koris, quella stanza, il letto… Eppure, mentre fissava gli intagli del baldacchino, trovò qualcosa che gli era familiare, stranamente familiare… come se i simboli avessero un significato in procinto di rivelarsi.

Estcarp… una terra e una città antichissime, e un modo di vivere! Simon si tese. Come l’aveva capito? Eppure era vero, reale come il letto su cui riposava il suo corpo intormentito dalla cavalcata, come gli intarsi sopra la sua testa. La donna inseguita… apparteneva alla razza di Estcarp… come il cacciatore morto alla barriera era appartenuto ad un altro popolo, un popolo ostile.

Le guardie dei posti di frontiera erano tutti uomini dello stesso stampo, alti, bruni, alteri. Solo Koris, con il suo corpo deforme, era diverso da coloro che comandava. Eppure i suoi ordini venivano obbediti; e solo la donna sembrava avere una maggiore autorità.

Simon sbatté le palpebre; le sue mani si mossero sotto le coperte, e si sollevò a sedere, volgendo gli occhi verso le tende alla sua sinistra. Aveva captato quel passo lieve, e non si stupì quando gli anelli della cortina tintinnarono, e la stoffa azzurra si aprì. Vide l’uomo cui aveva pensato fino a quel momento.

Senza armatura, Koris appariva ancora più strano. Le spalle troppo larghe, le braccia troppo lunghe sembravano pesare più del resto del suo corpo. Non era alto: e la vita sottile, le gambe snelle apparivano ancora più minute in confronto alla parte superiore del corpo. Ma su quelle spalle c’era la testa dell’uomo che Koris avrebbe potuto essere se la natura non gli avesse giocato quello scherzo crudele. Sotto la calotta di folti capelli color grano c’era il volto di un ragazzo appena divenuto uomo… di un ragazzo che non era soddisfatto di ciò che era. Era un volto di una bellezza sorprendente, in contrasto con quelle spalle: la testa di un eroe abbinata al corpo di uno scimmione.

Simon gettò le gambe giù dal letto e si alzò: per un momento gli spiacque di costringere l’altro a guardarlo di sotto in su. Ma Koris era arretrato con la prontezza di un gatto, e s’era seduto sotto un largo cornicione di pietra che correva sotto una feritoia, ed i suoi occhi erano ancora all’altezza di quelli di Tregarth. Con un’eleganza che contrastava con l’eccessiva lunghezza del braccio indicò un cassettone, su cui stava un mucchio d’indumenti.

Non era l’abito di tweed che si era tolto prima di buttarsi nel letto, notò Simon. Ma vide qualcosa d’altro, una sottile conferma della sua posizione. La pistola automatica e il contenuto delle sue tasche erano stati disposti in ordine meticoloso accanto agli abiti nuovi. Non era prigioniero, qualunque fosse il suo status sociale in quella fortezza.

Infilò le brache di morbido cuoio, simili a quelle che ora portava Koris. Morbide come guanti, erano di un colore azzurro cupo. E c’era un paio di stivali di una sostanza grigioargentea che sembrava pelle di rettile. Indossò anche quelli, poi si rivolse a Koris e gesticolò per indicare che desiderava lavarsi.

Per la prima volta, l’ombra di un sorriso sfiorò la bocca della guardia, che indicò un’alcova. La fortezza di Estcarp poteva apparire medievale, ma Simon scoprì che i suoi abitanti avevano idee moderne in fatto d’igiene. L’acqua prese a scorrere calda da un tubo, quando venne girata una semplice leva; e c’era un barattolo di crema dal lieve profumo, che applicata e rimossa toglieva il prurito della barba lunga. E insieme a quelle scoperte venne una lezione di lingua, fino a quando Simon poté disporre di un crescente vocabolario di parole che Koris gli ripeteva pazientemente fino a quando lui le aveva imparate.

L’ufficiale aveva un atteggiamento di studiata neutralità. Non mostrava iniziative amichevoli, a parte l’insegnamento della lingua. E non accettò i tentativi di Simon per una conversazione più personale. Mentre Tregarth indossava il giaco, Koris si girò sul cornicione per guardare, fuori, il cielo diurno.

Simon soppesò nella mano l’automatica. L’ufficiale escarpiano sembrava non preoccuparsi che lo straniero fosse armato o no. Alla fine, Tregarth l’infilò nella cintura, sopra lo stomaco vuoto, e fece segno di essere pronto.

La stanza dava su un corridoio: poco più avanti c’era una scala che scendeva. L’impressione di antichità incommensurabile trovò conferma nei gradini consunti, nel solco che correva lungo la parete sinistra, dove per chissà quanti secoli era stata sfiorata dalle dita di coloro che passavano di lì. Una luce pallida s’irradiava da globi posti in alto, entro canestri metallici: ma l’origine di quel chiarore restava misteriosa.

Ai piedi della scala c’era un corridoio più ampio: e c’erano uomini che lo percorrevano. Alcuni, dagli usberghi a scaglie, erano guardie in servizio; altri portavano abiti più comodi, come quelli indossati da Simon. Salutavano Koris e guardavano lui con una curiosità un po’ cupa che gli pareva vagamente sconcertante: ma nessuno parlava. Koris toccò il braccio di Tregarth, indicò un passaggio chiuso da una tenda, e scostò un lembo della stoffa in un modo che esprimeva un ordine.

Oltre la tenda c’era un altro corridoio. Ma qui la pietra nuda delle pareti era coperta da arazzi ornati degli stessi simboli che Simon aveva veduto sul baldacchino del letto, per metà familiari e per metà alieni. Una sentinella si mise sull’attenti sul fondo, portandosi alle labbra l’elsa della spada. Koris scostò un’altra tenda, ma questa volta accennò a Simon di precederlo.

La sala sembrava più grande di quanto fosse in realtà, perché aveva una volta altissima. La luce dei globi era più forte, e i loro raggi, sebbene non riuscissero a penetrare fra quelle ombre, mostravano chiaramente la scena.

C’erano due donne ad attenderlo… le prime che avesse viste all’interno della fortezza. Ma dovette guardare più attentamente per riconoscere in quella che stava in piedi, con la destra posata sulla spalliera di un seggiolone su cui sedeva l’altra, la donna che aveva visto fuggire inseguita dai cacciatori di Alizon. I capelli che allora le pendevano sulle spalle in ciocche fradice erano raccolti severamente in una reticella d’argento, e la sua figura era coperta dalla gola alle caviglie da una pudica veste dello stesso colore nebbioso. L’unico ornamento era un cristallo ovale come quello che allora aveva portato sul bracciale: ma era appeso ad una catena, e riposava tra le piccole curve dei seni.

«Simon Tregarth!» Fu la donna seduta a rivolgersi a lui: la guardò, e non riuscì a distoglierne gli occhi.

La donna aveva lo stesso volto triangolare, gli stessi occhi indagatori, gli stessi capelli neri ravvolti in una reticella. Ma il potere che irradiava da lei era violento come una folgore. Simon non avrebbe saputo dirne l’età, perché in un certo senso quella donna poteva avere visto posare l’una sull’altra le prime pietre di Estcarp. Ma a lui sembrava senza età. Alzò la mano di scatto e lanciò verso di lui una sfera che sembrava dello stesso cristallo nebuloso che lei e la sua compagna portavano come gemme.

Simon l’afferrò al volo. Sotto le sue dita non era fredda come aveva immaginato, ma tiepida. E mentre la circondava istintivamente con le palme, la mano della donna si chiuse sulla gemma, in un gesto subito imitato dall’altra.

Tregarth non riuscì mai a spiegare, neppure a se stesso, ciò che avvenne allora. Stranamente, raffigurò nei propri pensieri la serie di azioni che l’avevano condotto nel mondo di Estcarp, e nello stesso istante comprese che quelle due donne silenziose vedevano ciò che lui aveva visto, e in una certa misura condividevano le sue emozioni. Appena ebbe finito, un torrente d’informazioni fluì verso di lui.

Si trovava nella fortezza principale di una terra minacciata, forse condannata. L’antichissimo paese di Estcarp era minacciato dal nord e dal sud, e anche dal mare, a occidente. Solo perché erano eredi di una sapienza antichissima, gli abitanti dei suoi campi, dei villaggi e delle città erano riusciti a resistere alla pressione. Forse la loro era una battaglia perduta, ma sarebbero caduti combattendo fino all’ultimo colpo di spada, fino all’ultima arma che un uomo od una donna potesse impugnare.

E la stessa ansia che aveva trascinato Simon sotto il rozzo arco nel cortile di Petronius, si riaccese di nuovo dentro di lui. Le due donne non gli chiedevano nulla: il loro orgoglio era inflessibile. Ma Simon Tregarth promise la sua devozione alla donna che l’aveva interrogato, e in quel momento scelse, con uno slancio d’entusiasmo sincero e fanciullesco. Senza che fosse stata pronunciata una parola, Simon entrò al servizio di Estcarp.