"Il mondo delle streghe" - читать интересную книгу автора (Norton Andre)

Capitolo sesto La nebbia

Cominciò un poco dopo mezzanotte… quella linea strisciante che avanzava attraverso il mare, cancellando le stelle e le onde, e sospingendo davanti a sé un soffio gelido che non era creato dal vento né dalla pioggia, ma che si insinuava insidiosamente nelle ossa, ricopriva gli usberghi di gocce oleose, aveva un sapore salmastro e tuttavia leggermente putrido.

La fila dei globi luminosi che seguivano le curve delle fortificazioni del porto venne sommersa. Una ad una, le chiazze di luce venivano soffocate, e restavano solo vaghe screziature giallognole. Era come vedere un mondo cancellato spanna a spanna.

Simon camminava avanti e indietro sulla piccola piattaforma di guardia della torre centrale. Metà delle fortificazioni esterne, ormai, era stata inghiottita, perduta. Uno degli agili vascelli attraccati nel porto era tagliato in due da quella cortina. Non somigliava alle nebbie naturali che aveva visto: neppure alle famosi coltri di nebbia di Londra, o i velenosi smog industriali del suo mondo. Il modo in cui avanzava da occidente faceva pensare ad una sola cosa… era una cortina dietro la quale poteva prepararsi un attacco.

Stordito e turbato, udì il clamore dei segnali d’allarme delle mura, i grandi gong bronzei piazzati lungo i bracci del porto. L’attacco! Mentre raggiungeva la porta della torre, incontrò la strega.

«Stanno attaccando!»

«Non ancora. Sono i segnali della tempesta, per guidare le navi che potrebbero trovarsi nelle vicinanze del porto.»

«Una nave Kolder!»

«Può darsi. Ma non si possono sovvertire in un’ora le tradizioni dei secoli. Nella nebbia, i gong di Forte Sulcar sono al servizio dei marinai, e solo gli ordini di Osberic potrebbero cambiare la situazione.»

«Allora si conoscono già nebbie come questa?»

«Si conoscono le nebbie. Come questa… è un’altra faccenda.»

Gli passò accanto per uscire, volgendosi verso il mare come aveva fatto Simon qualche momento prima, e scrutò il porto che scompariva rapidamente.

«Noi che possediamo il Potere siamo in grado di esercitare un certo controllo sugli elementi naturali, anche se, come tutto il resto, il successo o l’insuccesso esorbitano dalle nostre capacità di previsione. Ognuna delle mie sorelle è capace di produrre una nebbia che confonde non soltanto gli occhi degli incauti, ma anche le loro menti… per un certo tempo. Ma questa è diversa.»

«È naturale?» insistette Simon, certo che non lo fosse. Non avrebbe saputo spiegare il perché di quella convinzione.

«Quando un vasaio crea un vaso, dispone l’argilla sulla ruota e la modella con mani esperte, facendola corrispondere al progetto che ha nei suoi pensieri. L’argilla è un prodotto della terra, ma ciò che ne cambia la forma è il prodotto dell’intelligenza e dell’esperienza. Sono certa che qualcuno — o qualcosa — ha raccolto ciò che fa parte del mare, o dell’aria, e l’ha modellato secondo i suoi scopi.»

«E tu che cosa farai, signora?» Koris si era avvicinato. Si diresse al parapetto e batté le mani sulla pietra imperlata di gocce d’acqua. «In questa nebbia, saremo praticamente ciechi?»

La strega non distolse lo sguardo dalla nebbia, scrutandola con l’attenzione di un assistente di laboratorio impegnato in un esperimento decisivo.

«Forse i Kolder cercano la cecità; ma la cecità può essere un’arma a doppio taglio. Se creano un’illusione… allora è meglio combatterli con lo stesso trucco!»

«Combattere la nebbia con la nebbia?» chiese il Capitano.

«Non si può combattere un trucco con un trucco identico. I Kolder attingono all’aria e all’acqua. Perciò anche noi dobbiamo usare acqua ed aria, ma in modo diverso.» La strega si batté contro i denti l’unghia del pollice. «Sì, potrebbe essere una mossa capace di sconcertarli,» mormorò, voltandosi. «Dobbiamo scendere al porto. Chiedi a Magnis un quantitativo di legna: rami ben secchi, se ne ha. Ma, se non ne ha, procurati i coltelli per poter tagliare il legno. E anche qualche straccio. E porta tutto al molo centrale.»

Il clamore soffocato dei gong continuava ad echeggiare attraverso il porto mentre il gruppetto di uomini di Sulcar e di Guardie usciva sul molo. Portavano bracciate di pezzi di legno, e la strega scelse il più piccolo. Impugnando il coltello, si sforzò di scolpire i rozzi contorni di una barca, con la prua appuntita e la poppa arrotondata. Simon gliela tolse dalle mani, staccando con facilità i trucioli bianchi: vedendo l’approvazione della donna, altri lo imitarono.

Fabbricarono una flotta di dieci, e poi di venti, e poi di trenta barchette minuscole che stavano nel cavo di una mano; ognuna aveva un albero fatto con uno stecco, ed una vela di stoffa che la strega aveva provveduto a legare. Lei s’inginocchiò davanti alla fila e, chinandosi, soffiò scrupolosamente su ogni piccola vela, premette per un istante il dito sulla prua d’ogni minuscola imbarcazione.

«Vento ed acqua, vento ed acqua,» cantilenò. «Vento per affrettare, acqua per portare, mare per sostenere, nebbia per intrappolare!»

Le sue mani si mossero rapidamente, gettando uno dopo l’altro i rozzi simulacri delle acque del porto. La nebbia li aveva quasi raggiunti, ma non era ancora abbastanza densa per impedire a Simon di scorgere uno spettacolo sorprendente. Le minuscole barche si erano disposte in una formazione a cuneo, puntata direttamente verso il largo. E quando la prima varcò la linea della cortina di nebbia, non fu più un ninnolo intagliato frettolosamente, ma una nave agile e splendente, più bella dei vascelli che Osberic aveva mostrato con orgoglio.

La strega si aggrappò al polso di Simon per rialzarsi in piedi. «Non credere a tutto ciò che vedi, uomo di un altro mondo. Noi che abbiamo il Potere creiamo illusioni. Ma speriamo che questa illusione sia efficace quanto la loro nebbia, e spaventi gli invasori.»

«Non possono essere navi vere!» Simon protestò ostinatamente, incapace di credere ai propri occhi.

«Noi contiamo troppo sui nostri sensi esteriori. Se si possono ingannare gli occhi, le dita, il naso… allora la magia è concreta, per qualche tempo. Dimmi, Simon, se intendessi entrare in questo porto per attaccarlo, e poi vedessi intorno alle tue navi, nella nebbia, una flotta di cui non avevi sospettato la presenza, non ci penseresti due volte, prima di dare inizio alla battaglia? Io ho solo cercato di guadagnare tempo, perché l’illusione si infrangerà, quando verrà messa alla prova della realtà. Se un vascello dei Kolder tentasse di andare all’arrembaggio d’una di queste navi, si rivelerebbe per ciò che è. Ma talvolta è utile guadagnare un po’ di tempo.»

In un certo senso, aveva ragione lei. Almeno, se il nemico aveva progettato di servirsi della coltre di nebbia per coprire un attacco contro il porto, l’attacco non lo realizzò. Quella notte non venne dato l’allarme dell’invasione, e la densa coltre di nebbia non si sollevò neppure dopo l’alba.

I comandanti delle tre navi in porto andarono a chiedere ordini ad Osberic: ma quello poté dir loro soltanto di attendere che la nebbia diradasse. Simon fece il giro delle Guardie, accodandosi a Koris; qualche volta era necessario che gli uomini si tenessero stretti per i cinturoni, per non perdersi sulle postazioni esterne della diga. Venne dato l’ordine di continuare a suonare i gong ad intervalli regolari, non più per guidare coloro che potevano trovarsi in mare, ma semplicemente perché un posto di guardia potesse tenersi in contatto con gli altri. Gli uomini volgevano i volti esausti e tirati quando venivano a sostituirli, e bisognava gridare la parola d’ordine e farsi riconoscere per non venire trafitti dalla lama di una sentinella innervosita.

«Se continua così,» commentò Tregarth, mentre si scostava per evitare un uomo di Sulcar che avevano incontrato all’improvviso, salvandosi così da un colpo violento sferrato alla cieca, «non avranno bisogno di attaccare, perché finiremo per sbranarci tra di noi. Basta che un uomo sembri avere addosso un elmo con la visiera a punta, in questa nebbia, perché si ritrovi senza testa.»

«L’ho pensato anch’io,» rispose laconicamente il Capitano. «I Kolder contano anche sulle illusioni create dai nostri nervi e dalle nostre paure. Ma cosa possiamo fare, più di quanto abbiamo già fatto?»

«Chiunque abbia buone orecchie può captare le nostre parole d’ordine,» disse Simon, deciso ad affrontare il peggio. «Un intero tratto delle mura potrebbe cadere in loro mano, postazione per postazione.»

«E come possiamo essere certi che questo sia un attacco?» ribatté amaramente l’altro. «Uomo d’un altro mondo, se sei in grado di dare ordini migliori, fallo, ed io sarò ben lieto di accettarli! Sono un militare, e conosco bene la guerra… o credevo di conoscerla! E credevo anche di conoscere le usanze degli incantatori, poiché servo Estcarp con sincera devozione. Ma questo non l’avevo mai visto: posso fare solo del mio meglio.»

«Neppure io ho mai visto un simile modo di combattere,» ammise prontamente Simon. «Sconcerterebbe chiunque. Ma ora sto pensando una cosa… loro non verranno dal mare.»

«Perché noi guardiamo da questa parte, aspettando di vederceli piombare addosso?» Koris lo comprese al volo. «Non credo che il forte possa venire attaccato da terra. Questi marinai hanno edificato abilmente la loro rocca. Sarebbero necessarie macchine che richiederebbero settimane di preparazione.»

«Mare e terra… che cosa resta?»

«Suolo ed aria,» rispose Koris. «Il sottosuolo! I passaggi sotterranei!»

«Ma non possiamo disperdere gli uomini per sorvegliare tutte le gallerie.»

Gli occhi verdemare di Koris brillarono della stessa luce ferina che Simon aveva scorto in occasione del loro primo incontro.

«Possiamo sorvegliarle, anche senza bisogno di uomini. È un trucco che conosco. Andiamo da Magnis.» Si mise a correre, mentre la punta del fodero della spada tintinnava di tanto in tanto contro le mura di pietra, quando svoltava agli angoli dei corridoi del forte.


Su un tavolo erano allineati bacili di tutte le grandezze e di diverse forme: ma erano tutti di rame e anche le sfere che Koris aveva scrupolosamente ripartito, una per bacile, erano di metallo. Una combinazione di bacile e sfera, installata nella parte del muro posta sopra una galleria sotterranea, avrebbe tradito ogni movimento di forzare la porta, là sotto, mediante l’oscillazione della palla nel recipiente.

I sotterranei, quindi, erano salvaguardati per quanto era possibile. Restava… l’aria. Forse perché conosceva bene la guerra aerea, Simon si sorprendeva ad ascoltare e ad osservare, fino a farsi venire il torcicollo, l’oscurità che avvolgeva le torri del porto. Eppure una civiltà che si affidava ai lanciadardi relativamente primitivi, alle spade, agli scudi ed agli usberghi per la difesa e per l’offesa — fosse pure con l’aiuto di sottili trucchi della mente — non poteva produrre anche attacchi aerei.

Grazie all’idea di Koris ebbero qualche momento di preavviso quando venne l’attacco dei Kolder. Ma da tutti i cinque punti in cui erano stati piazzati i bacili, l’allarme venne quasi nello stesso istante. I corridoi che conducevano alle porte erano stati riempiti, in lunghe ore di attività frenetiche, con tutto il materiale combustibile esistente nei magazzini del porto. Stuoie di lana di pecora e di pelli bovine, intrise d’olio e di catrame, che venivano usate per calafatare le navi, erano legate intorno a balle di tessuti finissimi, a sacchi di cereali e di semi, e l’olio e il vino erano stati versati a rivoli per inzuppare quei tappi giganteschi.

Quando i bacili diedero l’avvertimento, venne appiccato il fuoco con le torce e le altre porte furono chiuse, isolando dal nucleo centrale le gallerie invase dalle fiamme.

«Che ci sbattano pure il naso!» gridò Magnis Osberic, battendo con esultanza l’ascia sul tavolo nella sala principale del grande forte. Per la prima volta da quando la nebbia aveva imprigionato il suo regno, il Mastro Mercante parve perdere la sua aria preoccupata. Da buon marinaio, odiava e temeva la nebbia, naturale o innaturale che fosse. Adesso che c’era la possibilità di entrare in azione, era nuovamente animato dall’energia e dall’entusiasmo.

«Ahhhhh!» Nel frastuono, l’urlo risuonò tagliente come un colpo di spada. Non esprimeva soltanto la sofferenza del corpo, perché soltanto una paura suprema poteva averlo strappato ad una gola umana.

Magnis, con la testa taurina abbassata come se si accingesse a caricare il nemico, Koris, con la spada in pugno, un po’ curvo affinché il suo corpo di gnomo traesse energia dalla terra, e tutti gli altri presenti rimasero agghiacciati per un lungo istante.

Forse perché in tutto quel periodo di attesa se l’era quasi aspettato, Simon fu il primo a identificarne la provenienza, e si precipitò verso la scala che, tre piani più sopra, portava al bastione del tetto.

Non vi arrivò. Le grida e le urla che scendevano dall’alto, il clangore del metallo contro il metallo furono un avvertimento sufficiente. Rallentando il passo, Simon estrasse il lanciadardi. Fu un bene per lui, essere così cauto, perché mentre stava salendo verso il secondo piano, un corpo rotolò dalla scala, mancandolo di pochissimo. Era un uomo di Sulcar: dalla gola squarciata usciva a fiotti il sangue che spruzzava le pareti ed i gradini. Simon alzò gli occhi, verso quella confusione atroce.

Due Guardie e tre marinai combattevano ancora, con le spalle contro la parete del pianerottolo, tenendo a bada gli invasori che attaccavano con la ferocia maniacale dimostrata dai loro simili nell’imboscata. Simon sparò un colpo, poi un altro. Ma dall’alto continuava a scendere, incessante, un’ondata di elmi con la visiera a punta. Si poteva solo pensare che il nemico fosse giunto per via aerea ed avesse occupato i piani superiori del forte.

Non c’era tempo per formulare ipotesi sul modo in cui erano giunti fin lì… bastava sapere che erano riusciti a passare. Altri due marinai ed un uomo della Guardia erano caduti. Gli assalitori ignoravano i morti e i feriti, amici o nemici che fossero. I corpi scivolavano lungo le scale… era impossibile arrestarli in quel punto. Bisognava fermarli più in basso.

Simon si lanciò verso il primo pianerottolo, spalancò a calci le due porte che si fronteggiavano. I mobili preferiti dagli abitanti di Sulcar erano molto pesanti: ma quelli più piccoli si potevano spostare. Simon chiamò a raccolta un’energia che non sapeva di possedere e cominciò a tirare e a spingere le suppellettili per ostruire la tromba della scala.

Una testa protetta dalla visiera a punta lo fronteggiò al di là delle gambe della sedia che aveva sollevato per coronare la barricata, e la punta di una spada si avventò verso i suoi occhi. Simon abbatté la sedia sull’elmo. La sua guancia bruciava per la ferita, ma l’assalitore era crollato sulla barriera.

«Sul! Sul!» Simon si sentì spingere da parte e vide la faccia di Magnis, rossa quanto i suoi baffi ispidi, sollevarsi mentre il mercante sferrava colpi all’impazzata contro la prima ondata di invasori che aveva raggiunto la barricata e cercava di smuovere i mobili che la componevano.

Simon prese la mira, sparò, mirò di nuovo. Gettò via un caricatore vuoto, ricaricò il lanciadardi per riprendere a sparare. Scavalcò una Guardia che era caduta a terra gemendo, e difese il ferito fino a quando fu possibile trascinarlo via, al sicuro nell’interno del forte. E continuò a sparare…

Simon era ritornato nel corridoio: poi il gruppo di cui faceva parte giunse ad un’altra scala, difendendo accanitamente ogni gradino. C’era un fumo sottile… tentacoli di nebbia? No, perché quando li avvolgeva era acre, e pungeva la gola e le narici. Simon prese la mira… sparò… strappò i caricatori dalla cintura di una Guardia caduta che non avrebbe più potuto usare un’arma.

La scala, ormai, era dietro di loro. Gli uomini lanciavano grida rauche, e il fumo era più fitto. Simon si passò la mano sugli occhi che lacrimavano, allentò la sciarpa di maglia metallica dell’elmo. Ansimava.

Ciecamente, seguì i suoi compagni. Dietro di loro venivano chiuse e sbarrate porte dello spessore d’una decina di centimetri. Una… due… tre… quattro barriere. Poi entrarono in una stanza, di fronte ad una installazione sistemata in una cassa più alta dell’uomo gigantesco che vi stava appoggiato. Le Guardie ed i marinai che l’avevano costruita si disposero intorno alla stanza, lasciando la strana macchina al capo della città.

Magnis Osberic aveva perduto l’elmo con il cimiero a testa d’orso, e la pelle che gli fungeva da mantello era sbrindellata. La sua ascia era posata sopra la cassa, e dalla lama un filo rosso colava lentamente sul pavimento di pietra. Il suo volto aveva perso il colorito rubizzo, ed appariva contratto, sciupato. Gli occhi spalancati fissavano i guerrieri senza vederli… Simon intuì che l’uomo era in uno stato di choc.

«È finita!» Magnis riprese l’ascia, la fece passare sulla mano callosa. «Sono venuti dall’aria, come demoni alati! Nessuno può battersi con i demoni.» Poi rise sommessamente, con calore, come un uomo che prende tra le braccia la sua donna innamorata. «Ma esiste un modo per rispondere degnamente ai demoni. Forte Sulcar non diventerà il nido di quella genìa generata dall’inferno!»

La testa taurina si abbassò di nuovo, girò lentamente mentre gli occhi cercavano, tra i suoi seguaci, gli uomini di Estcarp. «Avete combattuto bene, voi del sangue delle streghe. Ma non v’impongo di finire come noi. Scateneremo l’energia che alimenta la città, e faremo saltare in aria il porto. Andatevene: forse potrete regolare i conti in un modo che gli stregoni volanti possano capire. Siatene certi: ne porteremo con noi più che potremo, e il giorno della resa dei conti si ritroveranno a ranghi ridotti! Andatevene, uomini delle streghe, e lasciate che noi di Forte Sulcar facciamo ciò che dobbiamo fare!»

Sospinti dai suoi occhi e dalla sua voce, come se Magnis li avesse afferrati uno ad uno e li avesse scagliati lontano da sé e dai suoi, gli uomini della Guardia si radunarono in gruppo. Koris era ancora con loro: il cimiero a forma di falco aveva perduto un’ala. E la strega, serena in volto, muoveva tuttavia le labbra mentre attraversava la stanza. Altri venti uomini… e Simon.

Le Guardie scattarono sull’attenti, levando le armi insanguinate per salutare coloro che restavano. Magnis grugnì.

«Bello, bello, uomini delle streghe. Ma non è il momento delle parate. Uscite!»

Uscirono dalla porticina che veniva loro indicata; Koris passò per ultimo, per chiuderla e sbarrarla. Si avviarono a corsa per la galleria. Fortunatamente, c’erano globi luminosi fissati al soffitto, e il pavimento era levigato, e potevano procedere velocemente.

Il rumore del mare divenne più forte: uscirono in una grotta dov’erano ormeggiate alcune barche.

«Giù!» Simon venne spinto a bordo insieme ad altri, e la mano di Koris lo colpì tra le scapole, facendolo cadere bocconi. Altri uomini balzarono intorno a lui, addosso a lui, inchiodandolo sul fondo oscillante dell’imbarcazione. Vi fu il tonfo di un’altra porta che si chiudeva… oppure era un boccaporto, sopra le loro teste? La luce era scomparsa, ed anche l’aria. Simon restò disteso, immobile, senza sapere che cosa sarebbe accaduto.

La barca si mosse, i corpi degli uomini rotolarono; Simon si sentì urtare più volte e nascose il viso nel cavo del braccio. L’imbarcazione girò, rivoltandogli lo stomaco. Non era mai stato un buon marinaio. Troppo impegnato a lottare contro la nausea, non era preparato all’esplosione che parve segnare la fine del mondo con un colpo ciclopico di frastuono e di pressione.

Stavano ancora oscillando sulle onde, ma quando Simon alzò la testa, inalò una boccata d’aria pura. Si dibatté, si mosse, senza prestare attenzione ai borbottii ed alle proteste degli altri. Non c’era più nebbia… quello fu il suo primo pensiero confuso. E poi… era giorno! Il cielo, il mare intorno a loro, la costa dietro di loro erano nitidi, luminosi.

Ma quando si era levato il sole dalla riva, balzando in fiamme verso il cielo? Era stato assordato dall’esplosione, ma non accecato. Erano diretti verso l’alto mare, lasciandosi alle spalle la fonte di quel calore e di quella luce.

Contò una… due… tre imbarcazioni. Non avevano vele: e quindi dovevano avere qualche altro mezzo di propulsione. Un uomo sedeva eretto a poppa di quella su cui si trovava Simon: la forma delle spalle lo rendeva riconoscibile. Koris era al timone. Erano usciti dall’inferno che era stato il porto di Forte Sulcar: ma dov’erano diretti?

La nebbia era scomparsa, e il fuoco che divampava sulla costa li illuminava. Ma le onde che li trasportavano non erano nate in un mare tranquillo. Forse la violenza dell’esplosione con cui Magnis aveva distrutto il forte si era comunicata all’oceano. Il vento piombò su di loro come se una mano gigantesca cercasse di sospingerli a fondo, e i passeggeri delle imbarcazioni cominciarono a rendersi conto che avevano guadagnato forse qualche minuto di vita, ma non la salvezza.