"Nel cuore della cometa" - читать интересную книгу автора (Benford Gregory, Brin David)

CARL

Le lastre di ghiaccio polveroso erano chiazzate e venate di marezzature e iridescenze, butterate e graffiate.

Carl Osborn fece ruotare la sua navetta da lavoro e si propulse verso il nucleo di Halley. Volò via dalla linea dell'alba nitida come un rasoio, dirigendosi verso il polo Nord, dove la loro base stava finalmente prendendo forma.

Adesso la superficie granulosa grigia e bruna stava cambiando rapidamente. Come minuscole, grasse formiche i mech si muovevano su di essa, prepara'ndo le aree dei moli e delle torri di attracco. I ragni trivellavano i fori dentro il ghiaccio, l'interminabile zzzzzttts delle microonde tracimava debolmente su alcuni canali dei dati. Carl borbottò un rapido comando correttivo al filtro del comunicatore della sua tuta, e l'interferenza cessò.

Il Pozzo 3 era quasi terminato, un foro simile a un'occhiaia morta. Il primo gruppo delle capsule ibernanti sarebbe stato portato là sotto tra non molto. Un chilometro di ghiaccio avrebbe fatto da scudo ai dormienti, proteggendoli dal pungolo fatale dei raggi cosmici e dal grandinare delle tempeste solari.

Qua e là incisioni casuali circondavano il pozzo. Le scariche delle celle di combustibile dei mech avevano butterato la crosta ghiacciata. Apparecchiature rotte giacevano là dove le squadre le avevano abbandonate. Le perdite chimiche si erano condensate in polverulente chiazze verdi e gialle. Travi, cartucce soniche, giacche antiurto scartate giacevano dovunque. Ciò che l'umanità ha intenzione di studiare pensò Carl con amarezza, per prima cosa lo insudicia.

Appena visibili al di sopra dell'orizzonte curvo, cominciavano ad apparire lentamente, adesso, al di sopra della linea dell'alba, i neri pannelli per la soppressione del gas. Rappresentavano un esperimento in corso, corazzati contro gli sciami di polvere ad alta velocità, e concepiti per generare elettricità dalla luce solare. La loro ombra riduceva la dispersione dei gas verso l'esterno da un ottavo della superficie del nucleo di Halley, introducendo un'asimmetria nell'evaporazione. I pannelli potevano venir ruotati, così da imprigionare anche il calore, aumentando la dispersione verso l'esterno sul lato notturno del nucleo. L'effetto netto era una debole spinta persistente che, col tempo, avrebbe potuto alterare in maniera sensibile l'orbita della cometa.

O per lo meno, era quello che si diceva. Per Carl, quei grandi pannelli neri avevano costituito una settimana di lavoro noioso e impegnativo: erano troppo delicati per consentire che i mech facessero qualcosa di più che tenerli fermi, mentre lui e Lani Nguyen e Jeffers li avevano montati sulle robo-braccia che li avrebbero fatti ruotare. Gli astroingegneri si stavano ancora arrabattando con i congegni che accumulavano dati da analizzare durante il lungo viaggio verso l'esterno.

Era difficile distinguere fra le attrezzature d'un esperimento tuttora in corso e la spazzatura lasciata dal giorno prima. Carl si chiese fino a qual punto il nucleo di Halley avrebbe finito per insozzarsi. In quasi ottant'anni avrebbero potuto benissimo ridurre a un'immensa pattumiera perfino tutta quella vasta distesa di ghiaccio.

Carl riusciva a intravedere una sottile striscia nera che sbucava dall'ombra lungo la linea dell'alba: il cavo polare. Avvolgeva il nucleo di Halley da un polo all'altro, e incrociava il cavo equatoriale formando un esatto angolo retto, ma separato da esso di parecchi metri per motivi di sicurezza. Quei binari fornivano un modo veloce per sfrecciare intorno alla superficie. Comunque, Carl li usava assai raramente. Gli piaceva liberarsi del tutto dal tetro giogo del ghiaccio, nuotando nella serena oscurità che sovrastava il tutto.

Fra lui e quel mondo di ghiaccio, a forma di patata, che ruotava lentamente, c'era uno sciame di mech sotto la sua supervisione. Digitò alcune istruzioni sulla consolle che teneva sulle ginocchia, borbottando automaticamente frasi in codice, inducendo quei punti lontani a girare il loro fardello: un gigantesco cilindro arancione. La sua superficie levigata rifletteva il lontano bagliore del Sole.

— Canale D a Osborn. Davvero grazioso, no? — trasmise Jeffers da sotto.

—  Be'…

Colore orrendo pensò. Ed è il rivestimento interno del corridoio. Dovremo guardarcelo per settant'anni. I mech scesero più in basso, inclinando il cilindro verso il Pozzo 3, seguendo le sue istruzioni. Il nucleo di Halley compiva una rotazione completa ogni cinquantadue ore, abbastanza velocemente per rendere necessarie delle regolazioni mentre si avvicinavano. A quella distanza, 8,3 chilometri diceva il suo quadro di controllo, c'era anche una sottile nebbia dovuta alla chioma cometaria in dissolvimento che offuscava le immagini e rendeva difficoltoso l'impiego del suo programma di allineamento automatico.

In caso di cattivo funzionamento, aveva un sistema di appoggio a bordo della Edmund. Ottimo, in teoria, ma nel tempo che avrebbe impiegato per avere qualcuno in linea, i mech potevano benissimo, in perfetta obbedienza, cercare di ficcare il cilindro dentro una collina di ghiaccio. Malgrado la fervida fede di Virginia, i computer non potevano fare più di tanto. Da lì in avanti bisognava navigare a vista.

— Lo porto dentro piano — trasmise.

— Pare si sia orientato verticalmente giusto di un pelo. Ma due clic troppo in alto lungo l'asse y locale — rispose Jeffers.

Carl abbassò lo sguardo, ricalibrò, vide che Jeffers aveva ragione. — Maledizione.

— Sei okay?

— Sì. Continua a tenere accesi quei fari.

I quattro allineatori laser inquadrarono chiaramente il Pozzo 3, e Carl fece assumere ai mech la configurazione usando quei segnalatori luminosi. Una lieve variazione di velocità, una torsione compensatrice. Il quadro di comando approvò lo spostamento. Bene. Ma adesso il ghiaccio frastagliato si stava avvicinando in fretta, e…

La gravità. Si era dimenticato della dannata forza di gravità. Il nucleo di Halley esercitava un'attrazione che era soltanto un decimillesimo di quella della Terra… ma durante la sua mezz'ora di discesa dal trasporto a vela solare la velocità era aumentata… di poco, ma costantemente… Digitò una correzione, osservando l'equazione numerica scorrere via, increspandosi, sul suo quadro di comando.

Le luci lampeggiarono rosse. — Sto frenando — trasmise, e accese i retrorazzi dei mech.

Maledizione alla gravità, comunque. Carl era stato su Encke, aveva lavorato intorno al nucleo roccioso della cometa per settimane, un sacco di brontolamenti e di sudate nei momenti cruciali. Comunque, era sostanzialmente facile, se si faceva attenzione a far coincidere i propri vettori, se non si spingeva nessun altro punto salvo il centro della massa, e si lavorava con calma sempre con la testa sulle spalle.

Ma Encke era un nanerottolo… una antica cometa sfrondata, abbrustolita dal sole a causa del suo lungo soggiornare nel sistema solare interno. Halley aveva molta più massa, per la maggior parte di ghiaccio. Sulla sua superficie non ci si accorgeva mai della leggera attrazione, ma avvicinandosi così dall'esterno, prendendo il tempo necessario a mirare con cura, gli effetti di quel decimillesimo di gravità potevano sommarsi.

I getti azzurri dei mech si aprirono a ventaglio contro il fondale di ghiaccio, rallentando il carico. D'un tratto Carl vide che non era sufficiente. Quel poderoso cilindro lungo cento metri si stava avvicinando troppo in fretta.

Ordinò al mech che si trovava più in basso a babordo di girarsi e attivare i getti alla massima potenza. L'unità ruotò e accese la propria riserva.

— Cosa diavolo fai… — cominciò Jeffers.

— Sgombra il pozzo!

— Cosa…

— Sgombralo!

La procedura standard consisteva nel far adagiare il carico a una cinquantina di metri di distanza, per poi spingerlo dentro. Il suo pannello gli diceva che una manovra del genere era impossibile. L'istinto gli suggeriva di tentare qualcos'altro.

Azionò i propri getti, scattando in avanti e quasi raggiungendo il cilindro. Un tocco da parte del mech di tribordo situato più in basso, due rapide torsioni, una scossa laterale per allinearlo…

Una freccia che cadeva dall'alto, puntata contro un cerchio nero raggrinzito.

Il cilindro arancione colpì il labbro del Pozzo 3, rallentò, frantumò un bordo di ghiaccio, e proseguì dentro, seminando fiocchi dello spazio.

Come un pesce in un barile! gioì, mentre il cilindro scompariva dentro il foro.

Jeffers urlò: — Ehi! Cosa ti viene in mente?

— Mi è scappato.

— Col cavolo! Ti stai soltanto esibendo.

Carl fece pulsare i propri getti e atterrò agilmente sui piedi. — Vorrei proprio! Niente da fare, l'ho corretto all'ultimo momento. Ho pensato che fosse meglio tentare di far centro piuttosto che bruciare del carburante per decelerare. Specialmente considerando che in ogni caso non avrei potuto fermarlo.

Jeffers scosse la testa esasperato. — Esibizionista — insistette. E andò a controllare che non fossero rimasti in giro brandelli del materiale.

Non ce n'era nessuno. Liscio e a prova di spuntoni, l'intreccio di filofibra poteva flettersi intorno agli orli aguzzi, il che lo rendeva eccellente per rivestire le gallerie serpeggianti all'interno del nucleo di Halley.

I quindici membri del Gruppo per l'Installazione dei Sistemi di Sopravvivenza avevano dieci giorni per traforare una frazione della regione del polo Nord, rivestire i pozzi e le gallerie con isolante ad alta pressione, e poi riempirli d'aria. Non sufficientemente lungo. E durante tutto quel tempo gli scienziati da poco risvegliati a bordo della Edmund avrebbero morso il freno.

Anche con 112 mech sarebbe stato un programma molto impegnativo. Non c'erano più di tante mani a guidarli. Al momento, l'intera spedizione disponeva soltanto di 67 membri «vivi». Quasi 300 aspettavano nelle capsule del sonno, le loro temperature corporee erano all'incirca di un grado al di sopra del punto di congelamento.

In alto, le lunghe e sottile chiatte spaziali aspettavano con il loro carico umano. Le loro immense vele solari, sottili come garze, adesso erano ammainate, non più necessarie per altri settant'anni. Accanto alla Edmund, simile ad una balena, le argentee Sekanina, Delsemme, e la Whipple, parevano pazienti barracuda.

Ancora nessuna notizia della Newburn, pensò Carl. Com'era possìbile che si fosse persa?

— Voi ragazzi state bene? — arrivò da qualche parte la voce leggera e tintinnante di Lani Nguyen.

Carl si guardò intorno e scoprì un puntolino che diventava rapidamente più grande a mano a mano che si avvicinava sfrecciando lungo il cavo polare. Aveva un braccio serrato sul cursore del cavo, mentre agitava l'altro, assomigliando straordinariamente a un uccello a volo radente che sbattesse un'ala soltanto.

— Sì, bene — trasmise Jeffers.

— Mi era parso di sentire che c'era un guaio…

La donna si staccò dal cavo balzando verso di loro, girandosi con destrezza per spostare il proprio baricentro ed evitare di mettersi a ruotare su se stessa a causa della spinta dei propri getti. È in gamba pensò Carl. Maledettamente in gamba. La delicatezza eterea di Lani mascherava un fisico saldo e muscoloso. Ma perché venire a controllare di persona un malfunzionamento di poco conto?

— Niente di speciale — rispose.

— Be', io avevo già finito, stavo giusto per tornare dentro. — Atterrò con l'agilità di un gatto a dieci metri di distanza, sollevando soltanto una nuvoletta di polvere. — Volete fare una sosta?

— Non possiamo — replicò Jeffers. — Dobbiamo controllare il tubo, assicurarci che si fissi bene.

Lani guardò Carl. — È un lavoro di routine, non dovrebbero volerci due persone.

Carl disse: — Se non stiamo attenti alla sicurezza, Cruz ci farà una testa così.

La donna lo studiò attraverso il suo casco sporco di polvere. — Sei sicuro? Non è già passata l'ora in cui dovevi smontare?

— Ehi, non ho intenzione di lavorare solo, ragazzina — dichiarò Jeffers, bonario ma fermo.

Lei scrollò le spalle. — D'accordo. Volevo soltanto un po' di riposo e relax. Sono in anticipo di una frazione sul programma.

— Ci vediamo stasera, allora. — Jeffers le lanciò un'occhiata di apprezzamento, ma lei parve non accorgersene.

— D'accordo — lei disse, rivolta a Carl. — Stasera. Decollò con altrettanta grazia e puntò verso il pozzo principale.

— Non me ne dispiacerebbe affatto — commentò Jeffers con aria sognante, su un canale chiuso. Carl l'ignorò.

— Presto dovremo pensare ad accoppiarci.

— Fra un mese sarai un ghiacciolo.

— Bisogna pensarci in anticipo.

— Pensi di riuscire a convincerla a fare un turno con te? — gli chiese Carl.

— Potrei. Poi sarò solo e gelato.

Carl scoppiò a ridere. — La tua idea dei preliminari sono sei birre e una partita a biliardo. Lei non è il tuo tipo.

— La necessità può creare degli strani compagni di letto. Non è stato Shakespeare a dirlo?

— Limitati al lavoro mugugnoso: è la tua forza. — Diede a Jeffers un'amichevole spinta verso l'ingresso del pozzo.

— Non puoi biasimare qualcuno soltanto perché vuol provarci.

— Su, vieni. Sei con la lingua penzoloni.

Si fecero precedere dai loro mech, in volo, giù attraverso l'asse cavo del cilindro arancione, liberando i ganci di arresto a mano a mano che passavano. Il tubo di filofibra s'irrigidiva, articolandosi in singole guaine lungo l'asse originario. Ogni due minuti, estrudeva da se stesso un nuovo segmento di cento metri, automaticamente pressurizzato e sigillato alle estremità, per poi cominciare a spingerne fuori un altro, ogni tratto successivo più stretto del precedente. Per Carl, tutto il complesso assomigliava a un anellide che si rigenerasse in continuazione, scavando una galleria dentro una mela.

Le gallerie laterali richiedevano maggiori cure. I mech tagliavano dei fori per le intersezioni, le saldavano garantendo una chiusura ermetica, e vi installavano gli estrusori dei tubi più piccoli. Carl e Jeffers dovevano manovrarli fino al punto stabilito, accoppiandoli e disaccoppiandoli, controllando giunture e saldature ermetiche, assicurandosi che niente s'impigliasse negli affioramenti di roccia o negli spuntoni di ghiaccio. Nelle gallerie, a volte si staccavano frammenti di agglomerato di ghiaccio, talvolta i mech erano maldestri, e fluttuavano liberi negli spazi bui, generando aloni multicolori intorno alle torce elettriche impiegate dagli uomini. Era un lavoro metodico, meticoloso, faticoso, perfino in condizioni di gravità quasi nulla.

L'intervallo per il pasto lo fecero in un segmento di galleria recentemente riempito d'aria. Aprirono il casco e si ormeggiarono a una parete, godendosi quella libertà, anche se l'aria fredda e pungente pareva colpire le loro narici come tante stilettate.

— Credi che ti abituerai mai — chiese Jeffers, masticando metodicamente una sbarretta di razioni autoriscaldate, — a vivere qua dentro?

Carl scrollò le spalle. — Ma sicuro. La ruota della ginnastica e la stimolazione elettrica si prenderanno cura della bassa gravità, così dicono i medici.

— Fidarsi di lor per ottant'anni? — Il volto magro di Jeffers pareva fatto apposta per esibire un'espressione scettica. La sua bocca si inclinava verso un mento appuntito, gli occhi si stringevano a punto interrogativo. — Comunque intendevo parlare del ghiaccio tutt'intorno. Senti come fa freddo? E questo con tutto l'isolante e il riscaldamento delle nostre tute che funziona a tutto spiano.

— Sarà un inverno mooolto lungo — Jeffers sogghignò. Ben presto avrebbe galleggiato beatamente nella sua capsula ad animazione sospesa, ed era chiaro che accarezzava quel pensiero. Jeffers era rimasto sveglio durante il volo verso l'esterno. Era stato noioso, e adesso il lavoro era duro e pericoloso. Era pronto perché altri prendessero il suo posto. Il primo turno.

Anche così, Carl non riusciva a capire l'atteggiamento di quell'uomo.

— Ci sono dei rischi in quelle capsule, sai. Malfunzionamenti del sistema, o anche…

— Lo so, lo so. La mia biochimica potrebbe incasinarsi in qualche maniera che gli esperti non hanno previsto. Oppure voi di guardia potreste toccare l'interruttore sbagliato, togliermi la corrente, e verrebbero a mancarmi le salvaguardie. Oppure un asteroide potrebbe colpirci tutti. — sogghignò un'altra volta. — Comunque, fra un paio di decenni sarà un altro viaggetto a senso unico.

Carl corrugò la fronte. — E allora?

— Preferisco dormire durante la parte monotona, accumulando la paga sulla Terra. — Il volto sottile di Jeffers si torse in un sorriso sardonico. — La colonizzazione delle comete nel sistema esterno… quello sì che sarà divertente. Ma posso saltare la politica del baciaculo.

— Cosa vuoi dire?

— Suvvia, anche tu sei percell. Sai com'è stata impostata tutta questa spedizione.

— Uh… come?

— Gli ortho! Sono loro che dirigono tutto. — Jeffers spuntò i nomi con le dita. — Cruz, poi Oakes, Matsudo, d'Amaria, Ould-Harrad, Quiverian. Ogni caposezione è un ortho.

— E allora?

— Loro pensano che noi siamo dei mostri… degli scherzi di natura.

— Oh, suvvia.

— Ma è così! Pensa a come gli ortho trattano i nostri sulla Terra. Credi che questi siano diversi?

— Non sono come quella masnada che ha incendiato il centro del Cile la settimana scorsa, se è questo che vuoi dire. Certo, ho letto di quella faccenda, e di quello che è successo negli altri posti. È una delle ragioni per cui lavoro nello spazio. Proprio come te.

— Lo spazio non è diverso.

— Certo che lo è. Questi ortho, questa gente, sanno che in realtà sono uguali a noi.

Jeffers ribatté in tono trionfante: — Ma non lo sono.

Carl sorrise senza umorismo. — Adesso, chi è che ha pregiudizi?

— Diavolo, sai benissimo che non siamo affatto come loro. — Jeffers si sporse in avanti, parlando con fervore. — Il nostro corpo è migliore, questo sicuro. E siamo più intelligenti. I test lo dimostrano.

— Col cavolo.

— Non puoi mettere in discussione le statistiche!

Carl grugnì irritato. — Ascolta, eravamo dei ragazzi-meraviglia là sulla Terra quando stavamo crescendo, prima che la gente cominciasse a mettersi contro noi tutti. Tutti i percell lo erano. Non ricordi le borse di studio? Tutte le attenzioni speciali?

— Ce le siamo meritate. Eravamo intelligenti.

Carl scosse la testa. — Ne siamo venuti fuori intelligenti grazie al trattamento da VIP che ci hanno riservato.

— Nooo. Io sono sempre stato più veloce dell'ortho tipico, anche se non mi preoccupo di parlare come si deve.

— E lo sei. Ma non sei meglio di gente come il capitano Cruz o il dottor Oakes. — Carl si alzò in piedi troppo in fretta e la sua presa velcro si strappò dal filofibra. Schizzò attraverso la galleria e sbatté la testa contro il soffitto.

— Dannazione!

Jeffers ridacchiò ma non disse niente. Carl si sfregò la fronte mentre ritornava veleggiando, ma rifiutò di lasciar trasparire la sua irritazione ulteriormente. Jeffers era come troppi percell, invischiato nella sua mania di persecuzione, cogliendo ogni immaginario affronto come se fosse una piaga purulenta. Discutere con loro serviva soltanto a incoraggiarli.

— Apri gli occhi — insistette il suo amico. — Chi hanno messo a fare dei lavori pericolosi come il nostro? I percell!

— Perché molti di noi sono addestrati ad operare a gravità zero. Abbiamo ricevuto delle borse di studio per poterlo fare.

— Allora, perché non affidare a un percell la direzione delle nostre operazioni manuali?

— Be'… non siamo ancora abbastanza vecchi. Nessun percell ha l'esperienza di Cruz o di Ould-Harrad, o di…

— Suvvia! Guarda chi sta facendo gli esperimenti sulla fuga dei gas verso l'esterno! E chi si fa i periodi più lunghi di sonno nelle capsule: tutti ortho.

— E allora?

— È là che ci saranno i quattrini, quelli veri! Impara come si fa a guidare le comete con la loro evaporazione, dimostra che puoi dormire e lavorare in turni di dieci anni… e potrai vendere il tuo talento dovunque nel sistema.

Carl non poté fare a meno di scoppiare a ridere. Non c'era dubbio che Jeffers stesse adottando la prospettiva lunga. — Suvvia, è…

— E la Sezione Chimica? Se qui dovessimo scoprire qualcosa che valga anche soltanto la metà dell'Enkon, sai chi ci guadagnerà? E anche lì sono tutti ortho, salvo Peters.

— Abbiamo firmato tutti un accordo sui brevetti. Qualunque tecnica venga scoperta, a tutti noi spetta una fetta, dopo aver recuperato le spese.

Il volto di Jeffers si contorse in un'acida maschera sardonica. — Gli ortho troveranno il modo di aggirare anche questo.

Carl sentì vacillare la propria convinzione. E se avesse ragione? Ma cancellò subito quel pensiero. — Senti, abbandona quel binario. Non possiamo continuare anche qua fuori nello spazio le stupide lotte della Terra.

— Non siamo noi a farlo, sono loro.

Esasperato, Carl fissò i resti del suo pranzo nella borsa. — Andiamo, preferisco lavorare piuttosto che litigare.


Comunque, quella sera si avvicinò preoccupato al bar del salone ricreativo, cercando Virginia. Lei era una percell ragionevole e poteva capire ciò che quel pomeriggio aveva con riluttanza ammesso a se stesso: che era in parte d'accordo con alcune delle accuse di Jeffers. Era il tono usato da Jeffers, quel suo modo di mettere ogni cosa in bianco e nero, che lo aveva irritato.

Prese un drink, si voltò per allontanarsi, e vide la scritta, sulla porta del bar, CHINATEVI O LAMENTATEVI, giusto in tempo per ricordarsene. Si chinò ed entrò nel salone. La prima settimana che erano a bordo, lui e gli altri percell avevano sbattuto la fronte contro l'architrave della porta una dozzina di volte; a quanto pareva i progettisti della Edmund avevano ritenuto che soltanto gli ortho socializzassero.

Lani Nguyen lo intercettò vicino al busto sorridente in tungsteno di Edmund Halley. — Ah, finalmente sei comparso.

Lani dava l'immediata impressione d'una efficiente progettazione aerodinamica, spaziale dai piedi alla radice dei capelli. I magri muscoli guizzavano sulle sue braccia nude color mandorla, ma il resto del suo corpo era avvolto in un abitino azzurro-ghiaccio che si muoveva nella lieve pseudogravità con graziosa e modesta indipendenza. A Carl piaceva l'effetto di quel tessuto rilucente che si attardava dietro i suoi precisi e delicati movimenti.

— Uhm, già, abbiamo avuto dei problemi con l'articolazione della galleria. — Esibì un sorriso cordiale, ma cercò di dare un'occhiata generale al salone senza farlo vedere.

Il dottor Akio Matsudo stava parlando animatamente con il tenente colonnello Ould-Harrad, il capo delle Attività Manuali. Attraverso l'oblò il nucleo di Halley risplendeva e fluttuava in sincronismo con le ruote-G della nave. Il capitano Cruz si teneva dritto come una bacchetta contro lo sfondo stellato, dominando facilmente la sala, circondato dal solito branco di signore ipnotizzate.

Dov'era Virginia?

— Oh? — chiese Lani con un sorriso lontano, in tutto simile a quello della statua del Buddha dietro di lei. — Ma non dovrebbe essere automatico?

Carl sbatté gli occhi. — Ehm… ci siamo imbattuti in un affioramento di macigni.

— Di solito, io mando un mech in avanscoperta a tagliarli via con una lancia termica. Poi…

Jeffers comparve dal nulla e Carl lo intrappolò. — Farai meglio a dirlo a questo tizio. È lui l'uomo di punta della nostra squadra. Ho una cosina da sistemare… — E fu libero, prima che la sorpresa stizzita di Lani si estrinsecasse in una protesta. Che anche Jeffers abbia una possibilità pensò Carl. Se la merita. Un po' ingiusto nei confronti di Lani, forse, ma c'erano pur sempre delle priorità, no? Vediamo, a quest'ora il suo turno dovrebbe essere finito…

Passò accanto al gruppo che circondava il capitano Cruz e d'impulso rallentò il passo. S'insinuò nel grappolo. Cruz parlava sempre a tutto il gruppo, senza mai consentire che qualcuno fosse escluso, e sorrise a Carl. — Come va laggiù, Osborn?

Carl rimase sorpreso nel sentirsi rivolgere la parola di persona. Aveva avuto soltanto l'intenzione di starsene lì ad ascoltare. — Uh, piuttosto dura, signore, ma possiamo farcela.

— Ho visto quel giochetto al Pozzo 3. — Cruz sollevò leggermente le sopracciglia e il suo sguardo spazzò il cerchio degli astanti. Malgrado fosse un ortho, un essere umano naturale, era alto come la maggior parte dei percell.

Carl sentì che il volto gli si surriscaldava. Doveva dire qualcosa, ma cosa? — Be', immagino di aver…

— Meraviglioso! Un centro perfetto! Mi è venuta voglia di applaudire. — Il comandante ridacchiò.

Carl era confuso. — Oh, io…

— È bello vedere un po' di audacia — dichiarò Cruz con calore.

Carl sorrise imbarazzato. Sa che era un errore? — Be', abbiamo un programma da rispettare.

— È vero. Vorrei soltanto che altre sottosezioni si muovessero altrettanto rapidamente.

Carl si chiese se fosse una critica velata. Ma Cruz sollevò la sua bolla di bourbon per brindare e, con viva sorpresa di Carl, la folla fece altrettanto. Carl nascose la sua confusione mandando giù una sorsata, scrutando la folla per vedere se vi fossero segni d'ilarità. No, facevano sul serio. Provò un improvviso piacere. Aveva sbagliato la manovra, certo, ma si era ripreso nel migliore dei modi. Era quello che importava al capitano.

Cruz colse lo sguardo di Carl, e fra loro passò un fugacissimo istante di reciproca comprensione. Lui sa che ho preso un granchio. Ma premia l'iniziativa rispetto all'indecisione. Perché? Carl aveva cercato di lavorare bene durante il volo della Edmund fuori dal sistema, ma fino a quel momento Cruz non gli aveva prestato niente di più che una remota, seppure cortese, attenzione.

Ecco: Kato e Umolanda. Non vuole che la gente si spaventi. Sa che sono state delle apparecchiature difettose e la pura sfortuna a ucciderli, molto più che la negligenza.

— Rispetteremo le nostre scadenze, signore — dichiarò Carl con fermezza.

Cruz annuì. — Bene. — Con consumata disinvoltura, il capitano rivolse adesso la sua attenzione a una donna, un ufficiale addetto alle comunicazioni, lì accanto. — Le nuove antenne a microonde sono state erette entro i tempi previsti, vero? Avete problemi a ricevere i segnali attraverso la coda di plasma? — chiese Cruz.

— Sì, un po'.

— Quanto tempo ancora prima che possiamo installare un radar a microonde per cercare la Newburn?

— Le farò avere una stima entro domani, signore.

Carl ascoltò il modo amichevole e aperto con cui Cruz estraeva informazioni dalla donna, le commentava, faceva una piccola battuta che suscitò le risate della folla. Ora, questo sì che è il modo di comandare pensò. È in contatto con tutto e tutti e non appare mai preoccupato. Chissà se imparerò mai il trucco.

Gli sarebbe piaciuto rimanere più a lungo, ma voleva trovare Virginia. La scoprì in un gruppo di hawaiani dalle varie carnagioni, intenti a ridere. Il suo abito era di un azzurro luccicante che suggeriva senza rivelare. Lo stato semiautonomo delle Hawaii aveva finanziato il venti per cento del costo della spedizione. Vera capitale del complesso economico pan-Pacifico, le Hawaii investivano moltissimo nello spazio. I loro rappresentanti davano un'atmosfera di allegria alla maggior parte delle cerimonie.

Carl aspettò che ci fosse una pausa nella conversazione, attirò lo sguardo di Virginia e la condusse con sé in una nicchia. Le descrisse rapidamente le lamentele di Jeffers. — Pensi che possa aver ragione? — le chiese.

— Vuoi dire, se gli ortho cercheranno di rastrellare tutto quello che possono? — Ebbe un sorriso d'intesa. — Ma certo. Questa non è un'opera di carità.

— Io non sono venuto solo per fare soldi. — Carl si tirò indietro incrociando le braccia. Sapeva che probabilmente si sarebbe mostrato più scaltro se fosse apparso più urbano, perfino un po' cinico, o per lo meno riteneva che fosse questo ad attirare la maggior parte delle donne sulla Terra. Ma in qualche modo il suo vero io finiva sempre per emergere.

— Offeso? — Virginia sorrise, le sue labbra piene si chiusero rivelando dei denti d'uno stupefacente splendore. — Non essere così austero. Perfino gli idealisti devono mangiare.

— Non hai firmato qualche piccolo accordo riservato sulla Terra?

Virginia corrugò la fronte. — Certo che no. Ascolta, ci saranno sempre delle voci secondo cui il tale o il tal altro hanno un contrattino extra per far filtrare fuori qualche scoperta. Chi lo sa, forse qualcuno trasmetterà qualcosa sulla Terra su raggio ristretto prima che noi torniamo, e troverà una bella mazzetta ad aspettarlo su un conto svedese.

— Non mi sorprenderebbe. Con quattrocento persone che faranno i turni di guardia nell'arco di settant'anni, ci saranno possibilità in abbondanza per imbrogliare.

Virginia agitò imbronciata il suo calice a bolla pieno di pina colada, con una cannuccia rosa. A Carl i festosi colori del salone parevano fuori posto dal momento che il nudo acciaio e il vuoto si trovavano soltanto a pochi metri da là. Era probabile che gli psicologi avessero pensato che chiazze tropicali di ambra, verde e oro potessero strappare la gente dalla cruda realtà, ma con lui non funzionava.

Virginia disse lentamente: — C'è un vecchio detto: Le persone normali scelgono i propri amici, ma un genio sceglie i propri nemici.

Carl fece una smorfia: — Cosa vuoi dire con questo?

— Sono gli ortho a dirigere questa spedizione, concesso. Se noi creiamo un attrito, essi potranno fare molto di più per renderci difficile la vita.

Carl ci rifletté un momento: — D'accordo. Concesso. Questo, comunque, non cambia i miei scopi.

Virginia annuì. — Ah, sì. La Terza Fase.

Carl si rendeva conto del fatto che, per lei, le sue opinioni erano troppo semplicistiche, un'approvazione troppo pedissequa della dottrina delle colonie della Terra Vicina. Tuttavia, onestamente, non riusciva a vedere come lei non potesse essere d'accordo.

Un secolo di lotte aveva finalmente dato all'umanità la tecnologia per sfruttare il sistema solare: mezzi di trasporto efficienti, apparecchiature meccanizzate per l'assemblaggio e l'estrazione mineraria, biosfere artificiali integrate di qualunque dimensione necessaria.

Adesso, argomentavano i coloni, era il momento di spostarsi fuori.

I satelliti senza equipaggio erano stati il primo livello dello sfruttamento dello spazio: Altopiano Uno. Molto indietro nel tempo, negli anni intorno al 1980, la gente aveva fatto miliardi con i satelliti per le comunicazioni. Avevano salvato molte vite umane con i satelliti metereologici.

Le fabbriche spaziali automatiche che utilizzavano i materiali luaari erano state il successivo gradino: Altopiano Due.

Ognuno degli altopiani era stato scalato dai pochi che ne avevano capito i vantaggi molto in anticipo e avevano corso enormi rischi a causa di quella visione. Altopiano Due era quasi fallito, prima di trasformarsi in un rampante miracolo economico, contribuendo a districare il mondo dal Secolo dell'Inferno.

Ogni ascesa pareva provocare un'apprensione terrocentrica: prima, che l'investimento potesse fallire; poi, che la culla dell'umanità venisse relegata a un ruolo di pura periferia. Ciò era aggravato dagli interminabili problemi sociali della Terra: malesseri che le colonie spaziali, com'erano progettate, non condividevano. Le Norme sulla Nascita e l'Infanzia, le quali imponevano che ogni bambino nato nello spazio dovesse passare almeno cinque anni a terra, erano un'espressione legale delle paure latenti.

Altopiano Tre era un sogno, un problema politico, un punctum dolens economico, un atto di fede: tutto contemporaneamente. Ma adesso le grandi colonie rotanti erano possibili. Adesso i coloni consideravano le Norme sulla Nascita e sull'Infanzia come simboli dei lacci di un grembiule che ormai, da tempo, stava loro piccolo. Volevano sfruttare gli asteroidi rocciosi e la Luna, ma avevano anche bisogno delle sostanze volatili per i propellenti e la biosfera. Avevano perfino finanziato una minuscola miniera di ghiaccio su Ganimede, ma non aveva funzionato molto bene.

Alcuni vedevano nelle comete la chiave, e credevano ferventemente che gli esseri umani potessero sparpagliarsi per il sistema solare come i semi d'un soffione, se soltanto avessero imparato a intruppare quelle antichissime palle di neve entro orbite dove potessero venir utilizzate.

Virginia si abbandonò languidamente sulla sua sedia a rete. — Non puoi aspettarti che Mamma Terra molli l'osso facilmente.

— Hanno tutto da guadagnare. Gli porteremo asteroidi a iosa, materiali grezzi, gli forniremo nuovi mercati…

Virgina lo fermò sollevando una mano. — Per favore, conosco a memoria la litania. — Un'espressione divertita di finta pazienza a lungo sopportata le passò fugacemente sul volto, disarmandolo all'istante. Forse non era intesa in quel modo, ma con un singolo gesto lei riusciva a farlo apparire, agli occhi di se stesso, goffo, lento di comprendonio, troppo ovvio nei suoi discorsi. E, forse, lo sono davvero. Ho vissuto nello spazio più della metà della mia vita da adulto.

— Soltanto perché ti è familiare, non significa che sia sbagliata.

— Carl, pensi davvero che estrarre sostanze volatili dalle comete possa portare il millennio?

— Dove altrimenti, possiamo trovare fluidi a basso costo? — Per lui, quello era l'asso nella manica, un freddo fatto economico. Proprio agli inizi del sistema solare, quel giovane sole caldo aveva soffiato via la maggior parte degli elementi leggeri verso l'esterno, lontano dalle zone interne. Soltanto la Terra aveva conservato abbastanza elementi volatili da rivestire il suo mantello roccioso di una sottile pellicola d'aria e d'acqua. Quando gli esseri umani si erano avventurati nello spazio per sfruttare le risorse che vi si trovavano, gli asteroidi, la Luna, Marte, avevano dovuto trasportare i propri fluidi dalla Terra.

— Sicuro — disse Virginia. — Prendi il ghiaccio dalle comete! Fra ottant'anni saremo di ritorno, gloria agli eroi, ai conquistatori! Ma per allora qualcuno potrebbe aver scoperto dei laghi ghiacciati nelle viscere della nostra Luna. Oppure aver trovato un sistema economico per intaccare i crio-asteroidi fuori dalle lune gioviane… chissà?

Carl la fissò stupefatto. — È pazzesco! Non c'è nessun modo di affrontare il costo per calarsi nel pozzo gravitazionale di Giove, soltanto per recuperare acqua e ghiaccio. Il progetto Giove lo sta dimostrando.

Lo sguardo di lei ebbe un guizzo. — E allora? È forse più facile dare la caccia alle comete?

I suoi occhi scuri lo stuzzicavano, Carl lo sapeva, ma non poteva desistere.

— Vale la pena di provare, Virginia. Nessuno ha ancora trovato il modo di guidare le comete, a meno che noi non riusciamo a far funzionare il sistema della dispersione dei gas verso l'esterno. Nessuno troverà i volatili sulla Luna o su Venere perché sono stati prosciugati. Non è possibile esplorare gli asteroidi ed estrarre i minerali soltanto con l'aiuto dei mech, perché trovare i metalli è ancora un'arte, non una scienza. Comete inaridite come Encke non possono venire intruppate proprio perché non c'è alcun modo di usare con esse, per guidarle, la dispersione dei gas verso l'esterno. Così…

— Mi arrendo, mi arrendo! — Virginia sollevò in alto entrambe le mani.

Carl sbatté le palpebre. Oh, per l'inferno! pensò. Perché mi lascio sempre trascinare?

Una profonda voce maschile disse, da dietro le spalle di Carl: — Non accettare così in fretta la sconfitta, Virginia. Prima chiedi i rinforzi.

Carl si girò di scatto mentre Saul Lintz prendeva posto su una morbida poltrona verde, a rete, lì accanto, e infilò il suo bicchiere dentro un incavo a pressione sul loro tavolo. Era magro e stagionato. I suoi movimenti della bassa gravità misurati e decisi.

— Sei arrivato troppo tardi — replicò Carl, cercando qualcosa di sagace da dire, per redimersi. — Ho già ammesso che sono noioso.

— Allora il mio aiuto è inutile. — Saul ridacchiò mentre lo diceva, ma Carl avvertì un fugace sussulto d'irritazione.

— Stavo dicendo che diverremo tutti ricchi dopo questa spedizione, se avremo pazienza — riprese Carl, misurando le parole. — E dovremmo lasciarci la politica alle spalle.

Saul annuì. Bevette una lunga sorsata. — Ammirevoli sentimenti.

— Ma noi dobbiamo farlo. Il nucleo di Halley è troppo piccolo per quel genere di…

— Infila la moneta per la Conferenza numero Dodici — esclamò Virginia in tono allegro.

— Be', è vero. — Carl non sapeva come prenderla, non gli piaceva il modo in cui la sua attenzione si era spostata su Saul Lintz nel momento in cui si era unito a loro. Si era mezza girata sulla sua sedia, quasi di faccia a Saul, e accennò appena a guardare Carl quando lui ebbe finito. — E qualunque accenno che qualcuno ne trarrà un profitto maggiore rispetto al resto di noi… be', finirà per causare guai.

Saul sollevò un sopracciglio, interrogativo. Pareva molto esperto nel fare un commento su quello che la gente diceva con un gesto minimo o una scrollata di spalle, un'economia di espressione che Carl gli invidiava.

— Si riferisce ai pettegolezzi del sottoponte — gli spiegò Virginia. — Il fatto che… sì… i non-percell occupino tutti i posti importanti.

— Non-percell come me?

— Adesso che lo dici — annuì Carl.

— Anzianità. Dopotutto, nessuno di voi geneticamente preselezionati ha più di quarant'anni.

— Sei sicuro che non ci sia altro? — Carl si protese in avanti, le mani intrecciate, i gomiti sulle ginocchia.

L'uomo più anziano corrugò la fronte percependo qualcosa nella voce di Carl. — Naturalmente. Che altro pensi che ci possa essere?

— Non potrebbe darsi che la Terra non abbia voluto nessuno di noi là dove potevamo creare problemi?

Saul rimise giù con cura il suo bicchiere e si rilassò sullo schienale. — Gli esiliati sono troppo malconci per causare affanno al faraone — disse, come se stesse parlando fra sé.

A Carl quell'osservazione parve in qualche modo irritante. — Perché non ti limiti a rispondere alla mia domanda?

— Era una domanda? Mi pareva un'accusa.

La voce di Carl era stata più aspra di quanto fosse sua intenzione, ma che fosse dannato se adesso si sarebbe tirato indietro. — Considera l'Installazione del Sistema di Sopravvivenza, il mio gruppo. Il capo della nostra selezione è Suleiman Ould-Harrad, un…

— Ortho? — lo imbeccò Saul con calma.

— Be', sì, è quello in gergo.

— Lo è. Geneticamente ortodosso. — Saul si rilassò ancora di più contro lo schienale, accostando una mano all'altra a V. — Intendendo una mescolanza zigotica non manipolata uscita dal mare dei geni umani, niente di più. I geni non hanno opinioni.

Carl scosse la testa. Non gli piacevano i modi pedanti che gli scienziati adottavano sempre, come se tutto quel gergo li rendesse migliori, più intelligenti, più saggi. — Ascolta, il tuo lavoro con i gas, le direzioni di tutti i laboratori, tutto in mani… vostre.

— Tu supponi che terranno questi frutti per sé? Per vendere le loro competenze una volta tornati sulla Terra?

Virginia interloquì con voce pacata: — Non è un'ipotesi impossibile, Saul.

Saul parve sorpreso a sentirselo dire da lei. — Temo che per me lo sia. L'implicazione diretta è che ci possa essere una cospirazione da parte del contingente «normale»…

— Visto? — scattò Carl. — Chiama i suoi «normali», allora noi non lo siamo.

Saul replicò, rigido: — Non intendevo dirlo in quel senso.

— È così che è saltato fuori.

Virginia s'intromise: — Carl, non puoi saltare addosso ad ogni…

— Non lo sto facendo. Sto soltanto cercando di vedere se dove c'è fumo, c'è arrosto. — Si sentiva caldo. Buttò giù il suo drink.

Saul fece una pausa, passandosi pensosamente la lingua sul labbro inferiore. — Lascia che cominci daccapo. Carl, se tu sapessi qualcosa su di me, capiresti che non vi sono ostile. Esattamente il contrario, in realtà. — Fissò Carl con sguardo fermo. — Suppongo che finiresti per scoprirlo comunque, presto o tardi… Io ho lavorato per anni insieme a Simon Percell.

Carl lo guardò stordito. Virginia rimase a bocca aperta, e poi disse: — Lo hai fatto? Avevo sentito delle voci, ma… non ci credevo.

— Soltanto come specializzazione postlaurea. — Saul scrollò le spalle. — Il nostro ultimo progetto comune studiava le deviazioni nei livelli di attivazione del lupus erythematosus. Ricorderete che quella è stata una della malattie principali dalla quale Percell vi ha liberato. Quell'orrenda affezione inguaribile che attaccava la pelle, i tessuti connettivi, la milza e i reni.

Virginia annuì. — Mia madre è morta per causa sua.

— Sì — annuì Saul. — E anche tua nonna.

Virginia contrasse la labbra per la sorpresa. Saul scrollò le spalle. — Mi ricordo il tuo caso. Simon effettuò le indispensabili alterazioni del DNA di tua madre, mentre io imparavo le tecniche per la prima volta.

Virginia si sporse in avanti. — Hai…

— … fatto il lavoro vero e proprio? Onestamente non riesco a ricordarmelo. Ho svolto i compiti di assistente per molte tecniche di sartoria genetica, alcune sperimentali, altre abbastanza dirette.

— Allora tu… potresti… essere…

Saul sbatté gli occhi, rilassandosi sullo schienale, evitando il suo sguardo estatico. — A quell'epoca era ormai un compito puramente meccanico. Assai poca ricerca, al di fuori della mai parte. Ho compiuto studi su come le cellule risultanti reagivano alle incursioni chimiche che, per il lupus normale, causavano un insorgere spontaneo della malattia.

Virginia disse lentamente: — E la mia… no?

— È ovvio che tu sei stata uno dei nostri successi. Credo proprio che tu non abbia nessuna traccia di lupus.

Virginia scosse la testa. — Per merito tuo.

— No. Di Simon Percell. Io ero andato da lui soltanto per imparare le sue tecniche. Fu durante quei pochi anni, quando godette dell'appoggio più completo, quando tutte le cose erano possibili. O così pensavamo.

Carl disse: — Comunque… non sapevo che tu avessi lavorato con Percell. — Si sentiva addolorato. Era probabile che Saul fosse stato presente quando i geni di sua madre erano stati delicatamente risistemati, liberati da quella microscopica costellazione molecolare che trasmetteva la leucemia. Poi, gli stregoni della genetica avevano aggiunto preziosi frammenti di DNA per dargli quel bagaglio di miglioramenti fisici che adesso contrassegnavano ogni percell. Per lui, Carl, quella piccola, coraggiosa banda d'ingegneri genetici era leggendaria. Non ne aveva mai incontrato uno prima di allora.

Saul incrociò le gambe, si lisciò i calzoni, visibilmente a disagio. Carl si rese conto che quell'uomo doveva aver avuto spesso incontri come questo, ed era attento alle emozioni represse che potevano esplodere da qualsiasi percell.

— Mi… mi dispiace per quello che ho detto — mormorò.

Saul annuì in silenzio. Anche lui tratteneva i suoi sentimenti dietro la diga delle sue labbra serrate.

Gli occhi di Virginia traboccavano. — Tu… potresti essere…

Carl vide che avrebbe voluto dire Anche tu sei mio padre, ma non riusciva a trovare nessun modo per esprimere la complessa combinazione di emozioni che provava. Saul aveva contribuito a dare la vita a migliaia di bambini che sarebbero stati menomati, uccisi, storpiati. Quegli anni non potevano venir dimenticati, salvo che dalla ragliante, sospettosa maggioranza della Terra colma di odio.

Quella stessa gente che aveva ucciso Percell, come se avessero personalmente premuto la canna del revolver calibro 32 contro la sua tempia. Era stato lo stesso Simon Percell a schiacciare il grilletto spinto a una crisi depressiva a causa di quello che adesso risultava, con tutta ovvietà, un errore inevitabile.

Un errore nella modificazione renale ereditaria aveva ucciso un intero stock di bambini programmati. Cosa ancora peggiore, essi non erano morti fino all'età di tre anni, dopo che il male li aveva colpiti all'improvviso.

La vista di tanti bambini che si torcevano nell'agonia, la pelle ingiallita e raggrinzita, le funzioni dei reni e del fegato improvvisamente cessate, era stata una tortura. I bigotti dei mezzi di comunicazione avevano diffuso quelle immagini in tutto il globo. Il crescente coro del pubblico contro di lui, la minaccia di venir legalmente perseguito, e gli improvvisi tagli dei finanziamenti destinati alla sua ricerca, tutto questo era stato troppo per un uomo che imponeva a se stesso gli standard più alti. Carl si riscosse. Era ancora così facile ridestare i ricordi. Sua madre che moriva miserevolmente. Gli anni di attesa per vedere se anche lui avrebbe mostrato i sintomi. La liberazione finale, quando aveva saputo di essere a posto e che gli sarebbe stato possibile andare nello spazio con una fedina genetica pulita. Quei ricordi lasciavano ancora in lui un segno profondo.

— Io… senti, lascia che ti offra un altro drink — disse Carl, con voce esitante.

— Ma sicuro — annuì Saul con un sorriso incerto.

— Forse una partitina a scacchi più tardi?

— Certamente! — esclamò Saul con entusiasmo. — Questa volta, lotta senza quartiere. Difenderò l'onore della gente normale. — Tutti scoppiarono a ridere. Poi Saul sternuti.

Sia Carl che Virginia sussultarono leggermente. Sorrisero tutti. La tensione era sfumata.

— Oh, adesso — disse Saul, in tono cordiale, mettendo via il fazzoletto, — questa è una delle modifiche di Percell della quale accetto il merito. L'aver inserito a bella posta una soppressione della reazione istaminica. A me non serve a niente, ma voi gente non soffrite come me di fastidiosi raffreddori. Vi invidierò tutte le volte che Akio Matsudo libererà uno dei suoi dannati virus sfida!

Ma molti anni più tardi Carl si sarebbe ricordato molto bene di quella convulsa e sorprendente eruzione, la prima, ma certamente non l'ultima volta che aveva sentito l'esplosivo sternuto di Saul.